Sono passati quindici anni dalle quattro giornate di Genova 2001, un evento che chiunque l’abbia vissuto – soprattutto in prima persona – è difficile da dimenticare, dato il suo valore sia simbolico, sia di angosce materialmente esperite, con i governi del mondo che mostravano il loro vero volto all’interno di una nazione che situazioni simili non le vedevano da alcuni decenni. Non ripercorreremo i fatti di quei giorni, comunque ben noti, se non di sfuggita: cercheremo qui, invece, di rivisitare le potenzialità ed i limiti di quel movimento di allora, che offrì a decine di milioni di individui la speranza di “un mondo nuovo e possibile”.
In qualche modo, il movimento era nato a metà anni novanta intorno all’esperienza zapatista messicana che aveva rotto la cappa di piombo degli anni ottanta, con l’ideologia “neo”liberista e l’idea della “necessità” della distruzione delle conquiste del movimento operaio e socialista che erano riuscite ad imporsi a livello di massa – grazie anche al crollo delle esperienze del socialismo (ir)reale che aveva dato l’impressione della “fine della storia” e presentato il capitalismo come unica realtà possibile ed ogni sua alternativa come velleitaria se non peggio.
Merito dello zapatismo fu anche – anzi: soprattutto – quella di offrire nuovamente a livello di massa l’idea della possibilità effettiva di “cambiare il mondo senza prendere il potere”. Intorno al processo internazionale di solidarietà al movimento messicano si andò gradatamente costituendo una rete di gruppi, movimenti, associazioni che riuscirono a superare le loro diversità ed unirsi sulla base dell’opposizione alle politiche “neo”liberiste internazionali che si andavano fin da allora costituendosi, rappresentandosi anche mediaticamente tramite i vari incontri internazionali dei principali governi mondiali con all’ordine del giorno i vari “accordi di libero scambio” – leggi redistribuzione ai ricchi delle (poche) ricchezze che le classi subalterne erano riuscite a strappare nei “trent’anni gloriosi” e distruzione dei (pochi) diritti che le stesse avevano conquistato con lunghe e sanguinose lotte.
Le manifestazioni di Seattle dal 30 novembre al 4 dicembre del 1999 contro la terza conferenza dell’Organizzazione mondiale per il commercio – World trade organization, WTO – convocata per avviare il Millenium round, grazie alla loro vittoria sia pure momentanea contro i giganti della terra, furono il momento di svolta del movimento e, allo stesso tempo, il punto culminante di un processo di integrazione di gruppi e organizzazioni attive in varie parti del mondo che, dopo varie campagne specifiche, mobilitazioni locali e controvertici “minori”, si trovò unificato da pratiche di lavoro comune, che superavano i confini statali e si affiancavano ai consueti settori di iniziativa politica e sociale. Il tutto, nonostante l’eterogeneità, sempre alla luce dell’idea unificante di un mondo diverso e possibile e, in moltissimi settori, che questo cambiamento fosse possibile superando la tradizionale concezione della conquista del potere.
I governi non stettero con le mani in mano e la risposta immediata fu la repressione più selvaggia delle varie iniziative: dopo Seattle il morto fu cercato da subito, per far comprendere agli inaspettatamente numerosi e decisi oppositori che il manovratore non andava disturbato in alcun modo. La cosa fu immediatamente evidente con le iniziative internazionali del movimento: nel 2000 ad aprile, a Washington, in occasione del G7 (Gruppo dei Sette: gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, il Regno Unito, la Francia, l’Italia, il Canada); in settembre, a Praga, contro l’incontro del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale; in ottobre, a Montreal, contro il vertice tra i ministri finanziari e i governatori delle Banche centrali dei venti paesi più industrializzati; in dicembre, a Nizza, durante il Consiglio Europeo. La situazione genovese venne anticipata l’anno successivo a Davos, in Svizzera, al Forum dell’economia mondiale, ma soprattutto nel marzo napoletano; poi in aprile, in Quebec, nella manifestazione contro l’incontro dei dei Presidenti e dei Governatori di Nord, Centro e Sud America ed a giugno, durante la manifestazione contro il Consiglio Europeo a Göteborg (Svezia), dove ci furono feriti gravissimi ad opera delle armi da fuoco che vennero usate dalla polizia. Infine, Genova. Il movimento, però, non morì affatto ed anche la situazione genovese, nonostante l’enorme apparato mediatico messo in atto per criminalizzare il movimento, fu l’occasione per rilanciare la lotta.
Il vero punto di svolta a favore dei governi, spesso sottovalutato nello scrivere la storia del movimento, furono gli eventi dell’11 settembre 2001. Non entreremo nel merito della questione sulla matrice dell’intera vicenda: sta di fatto che che i governi se la giocarono tutta a loro favore, presentandosi come i difensori di un popolo mondiale messo sotto attacco da un pericolosissimo, feroce ed assolutamente destrorso nemico esterno. Qui il movimento cominciò a sbandarsi, partendo dalla “deconvocazione” dell’iniziativa napoletana del tardo settembre(1) e, soprattutto, con la palese sconfitta avvenuta all’atto della convocazione della manifestazione internazionale contro la guerra in Afghanistan: nonostante si sia trattata della più grande manifestazione di tutti i tempi – con decine di milioni di partecipanti a vario livello – la guerra si svolse lo stesso, invertendo nell’immaginario collettivo quel senso di possibilità effettiva di mutamento che aveva animato fino a quel momento il movimento, che gradatamente andò a sfaldarsi negli anni successivi. Le riunioni internazionali continuarono a farsi con sempre meno numerose contestazioni, le guerre si sono susseguite sempre più numerose e gli accordi internazionali a favore dei ricchi contro i poveri pure.
Quali furono i limiti che portarono alla fine di un movimento così di massa? Certo, non va sottovalutato il timore che in molti suscitò l’enorme apparato repressivo e violento messo in atto dai governi di tutto il mondo, ma gli errori fondamentali furono altri.
Innanzitutto, quella eterogeneità che inizialmente ne aveva fatto la forza divenne il suo limite. Le componenti più moderate che erano state trascinate dall’onda del movimento furono le prime a cedere alla sirena dell’unità (inter)nazionale contro il terrorismo, mentre alcune componenti “terzomondiste” screditarono il movimento con delle analisi che vedevano nel miliardario saudita a capo di Al-Qaueda una sorta di leader del proletariato arabo.
Soprattutto, però, non si comprese e, soprattutto, non si applicò l’indicazione che veniva dalle componenti libertarie del movimento di Seattle con lo slogan “è ora di parlare con il tuo vicino”: alle manifestazioni il movimento doveva accompagnare un capillare lavoro di massa rivolto alle classi subalterne, partendo dalle loro condizioni materiali di vita. Non è un caso, infatti, che a distanza di oltre dieci anni, di quel movimento sia rimasto in piedi a livello di massa solo l’esperienza nordamericana, che si è reincarnata nelle lotte contro la crisi e le politiche di salvataggio delle banche che ha preso il nome di Occupy Wall Steeet e di cui, non a caso, lo slogan più noto è quello del “noi siamo il 99%”. Purtroppo, il resto del movimento non ha seguito questa strada, alla fine dimostratasi vincente, e si è lasciato andare ad una nuova disgregazione ed atomizzazione di quelle associazioni, gruppi, movimenti che, per alcuni anni, avevano saputo fare fronte comune contro governi e politiche “neo”liberiste. Una lezione, questa della storia del movimento “no global”, che va tenuta presente per non ripetere gli stessi errori, perché di un mondo diverso e possibile abbiamo davvero tutti – o almeno il 99% – un disperato bisogno, di fronte all’attacco sempre più ampio alle condizioni di vita e, in prospettiva, alla stessa sopravvivenza della specie umana.
Enrico Voccia
(1) L’iniziativa si svolse comunque, anche con una notevole partecipazione ed una discreta riuscita in termini di controinformazione, ma solo a livello regionale.